Essere autonomi significa non avere mai bisogno degli altri! Ma è proprio così?

Monte Everest
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Nel pensiero comune, “essere autonomi” significa non avere bisogno degli altri

Chiedere aiuto è una delle azioni più difficili da compiere, in particolare quando si è convinti, o si è stati convinti da altri, che domandare aiuto sia una sconfitta, un fallimento che mina alla base la propria autostima ed il proprio senso di autoefficacia.

D’altro canto, le definizioni di “autonomia” e “autonomo” che troviamo sul dizionario vanno in questa direzione. Cercando infatti il termine “autonomia” nel vocabolario on line Treccani, tra gli altri, troviamo: “3. Nell’uso com., la facoltà e capacità del singolo di regolarsi liberamente: avere, godere, raggiungere, perdere la propria a.; rivendicare, difendere la propria a.; a. economica, capacità di provvedere da sé alle proprie necessità. Per estens., indipendenza, libertà di agire: in casa nostra, tutti godono di una loro a.”; cercando invece, sempre sul medesimo vocabolario, il lemma “autonomo”, possiamo leggere, tra l’altro: “1. […] b. Per estens., libero, indipendente: a me piace essere a. e non dipendere da nessuno.

Questo modo di pensare è una vera e propria trappola, che ci porta a sperimentare frustrazioni di continuo, impedendoci di stare bene con gli altri e, soprattutto, con noi stessi.

In questo articolo parlerò dell’autonomia delle persone con disabilità e come la sua conquista rappresenti una montagna da scalare… ma non credete, ciò che leggerete, vale per tutti, indipendentemente dal fatto di avere una limitazione fisica e/o sensoriale. La presenza di una disabilità rende palese la difficoltà di chiedere aiuto ed i danni provocati dal non farlo, ma quanto scritto è valido per chiunque, solo che i cosiddetti normodotati possono mascherare e far finta che il problema non esista… il che non è un bene.

Una montagna da scalare.

Il tema dell’autonomia rappresenta un tasto dolente per tutte le persone con disabilità, sia che lo siano dalla nascita – o comunque da un’età molto precoce – sia che lo diventino in età adulta o anziana: l’autonomia è una montagna da scalare. Sicuramente tanta strada è stata fatta e, grazie ai servizi, agli ausili ed ai percorsi di abilitazione e riabilitazione, le persone con disabilità possono fare tante cose senza dipendere dagli altri… ma c’è ancora tanto da fare per raggiungere la piena autonomia e gli ausili, i servizi ed i corsi non sono sufficienti… è necessario il giusto approccio mentale!

Interpretando letteralmente le definizioni dei termini “autonomia” e autonomo” sopra riportate si potrebbe concludere che il perseguimento di un soddisfacente livello di autonomia per una persona con disabilità sia una battaglia persa in partenza: una persona con disabilità non può fare tutto da sola, ergo, non può essere autonoma… ma questa è una visione semplicistica del problema, un modo di pensare che chiude tutte le porte.

Una persona con una menomazione fisica o sensoriale ha sicuramente dei limiti oggettivi, il suo livello di disabilità e di dipendenza dagli altri però sarà determinato dalla sua capacità di superare ed aggirare tali limiti.

immagine di un ragazzo che fa volare un aquilone

L’autonomia nelle diverse fasi della vita.

Quando la disabilità è congenita – o comunque è stata acquisita in età infantile – il problema dell’autonomia emerge con l’inizio dell’adolescenza. Questo, infatti, è il periodo della vita nel quale i bambini iniziano a separarsi dalla propria famiglia – in particolare dai genitori – per avventurarsi nel mondo esterno. Il gruppo dei pari diventa sempre più significativo e, di conseguenza, entrare a farne parte diventa vitale: questo è il momento in cui si inizia a sperimentare l’autonomia dai propri genitori, il momento in cui si comincia a raggiungere in solitaria i luoghi di appuntamento con i compagni (magari in sella al proprio motorino) … e, per gli adolescenti con disabilità è il momento in cui ci si scontra davvero per la prima volta con i limiti imposti dalla propria condizione! Mentre i propri amici incominciano a sperimentare una sempre maggiore libertà  dalle mamme e dai papà, i ragazzi con disabilità faticano a raggiungere tale libertà, un po’ per fattori oggettivi (il motorino non lo possono utilizzare, a piedi dappertutto non si può andare, i mezzi di trasporto pubblico non ci sono o non sono attrezzati per essere fruiti autonomamente dai passeggeri a ridotta mobilità e via dicendo) e in parte,  spesso la componente di maggior peso, per il forte senso di protezione dei genitori che, abituati sino a quel momento ad accompagnare il proprio fanciullo dovunque senza che egli avesse nulla da ridire, ora si trovano alle prese con un ragazzo che, nonostante i limiti dettati dalla propria condizione, ha il desiderio ed il bisogno di far da sé.

In età evolutiva, l’iperprotezione familiare può, a seconda delle qualità temperamentali del bambino/ragazzo, generare un forte stato di malessere manifesto che rende ancor più difficile il percorso di presa di consapevolezza della propria condizione, che può degenerare in sfiducia in sé e nel futuro; in altri casi invece, quando l’individuo è particolarmente fragile e vulnerabile e/o la presenza dei genitori è stata molto pressante sin dai primi anni di vita, si può arrivare ad un annullamento completo della spinta all’autonomia di cui si accennava sopra: il ragazzo non fa nulla per rendersi più autonomo e, nei casi più gravi, non  si pone neanche il problema.

La situazione cambia poco, per non dire nulla, nel caso in cui la condizione di disabilità si manifesti in età adulta o senile. Anche in questi casi, infatti, i componenti della famiglia hanno la tendenza a diventare iperprotettivi nei confronti del proprio congiunto, sostituendosi a lui nello svolgimento delle attività della vita quotidiana.

Spesso si ritiene che fare il bene della persona con disabilità significhi proteggerla da qualsiasi pericolo potenziale – sia di natura fisica che emotiva – e, quindi, ci si debba sostituire a lei   nello svolgimento anche delle attività più semplici: in questo modo, però, le si impedisce di vivere esperienze nuove, sottovalutando il giovamento che potrebbe trarne in termini di autostima e di benessere psicofisico. Pensiamo, solo per fare un esempio nell’ambito della disabilità visiva (che è quella che conosco meglio, se non altro perché la vivo sulla mia pelle), a quanto possa influire positivamente sulla vita sociale – sia della persona giovane che dell’anziano – il sapersi spostare autonomamente anche solo per piccoli tratti. Al ragazzo adolescente, aver appreso l’utilizzo del bastone bianco e le strategie per orientarsi nel traffico  consente di raggiungere un luogo di appuntamento con i compagni (il cinema, la piazza, il bar che frequentano abitualmente o anche semplicemente  il distributore di merendine a scuola) senza bisogno di essere accompagnato da un adulto (soprattutto se è un genitore o l’insegnante di sostegno/l’educatore se è a scuola), significa essere come tutti gli altri e, l’assenza di una persona adulta, rende più facile la socializzazione con i coetanei allontanando il rischio di isolamento.

Analogamente, le stesse abilità di movimento consentono alla persona anziana con disabilità visiva di continuare a recarsi in quei luoghi che frequentava prima di perdere la vista (circolo anziani, bar del paese, parrocchia, associazione di volontariato ecc.), mantenendo i propri contatti sociali e costruendone di nuovi… allontanando anche in questo caso lo spettro dell’isolamento che, ancor di più che per i giovani, è un pericolo sempre in agguato.

Di esempi come questi se ne possono fare numerosi, non solo nel campo della disabilità visiva, e tutti danno prova dell’effetto benefico di una buona autonomia sulla qualità della vita delle persone con disabilità di tutte le età.

Disegno di due mani che manovrano una marionetta e una forbice che taglia i fili

Tirare i fili della propria vita.

La limitazione della libertà di azione fuori misura che i familiari a volte impongono – con le migliori intenzioni si intende – ai propri cari ha degli effetti potenzialmente devastanti sul benessere psicologico della persona con disabilità, indipendentemente dall’età. Quando una persona riesce ad occuparsi di se stessa e della propria famiglia, a coltivare i propri interessi ricorrendo all’aiuto altrui solo quando è strettamente necessario e, in ogni caso, avendo un ruolo da protagonista nella gestione delle situazioni, si sente una persona efficace e ciò dà origine ad un circolo virtuoso, favorendo l’aumento dell’autostima e, conseguentemente, un incremento del livello di benessere generale. Viceversa, se non gli è permesso sperimentarsi in attività nuove, se per fare qualsiasi cosa deve attendere che qualcun altro intervenga (per altro con i suoi tempi e le sue modalità, che non necessariamente coincidono con i propri), la persona con disabilità si sentirà come una marionetta i cui movimenti dipendono dalla mano che ne tira i fili.

Certo che, se per un individuo “essere autonomo” significa poter fare tutto in maniera completamente indipendente, senza mai chiedere niente a nessuno, e giudica il ricorso all’aiuto altrui come una mancanza di autonomia o, peggio ancora, una sconfitta, il circolo virtuoso sopra descritto non si innescherà mai! Infatti, una persona con disabilità per quanto autonoma ha dei limiti oggettivi che non sempre sono superabili.

E’ quindi importante far comprendere alle persone con disabilità e ai loro familiari la rilevanza del mettersi in gioco per acquisire sempre maggiore autonomia nelle attività della vita quotidiana e di quanto lo sforzo sia ripagato in termini di benessere psicofisico, stando ovviamente ben attenti a non colpevolizzare coloro che non se la sentono di compiere determinati passi e a non giudicare quei familiari che mostrano difficoltà a lasciare far da soli il proprio figlio o genitore…  nella maggior parte dei casi questo è un atteggiamento derivante da una forte preoccupazione per l’incolumità del proprio caro e non a mero egoismo.

Va sottolineato che tutto questo discorso vale anche per le persone con disabilità plurime. E’ innegabile che, più è grave la  pluridisabilità, minori saranno gli spazi di autonomia conquistabili e maggiori saranno le resistenze dei familiari, ma ciò non deve significare l’abbandono di questo percorso di abilitazione/riabilitazione: bisogna sempre mettere la persona nelle condizioni di sviluppare le capacità ed abilità individuali al massimo delle proprie possibilità,  educando i familiari a partecipare attivamente ed a favorire tale processo, aiutandoli, senza mai giudicarli, a superare le paure e le difficoltà.

Conclusione.

Come già asserito nella parte introduttiva di questo articolo, il discorso fatto sugli effetti positivi dell’essere autonomi sul benessere e sulla qualità di vita delle persone con disabilità vale per chiunque. E’ quindi importante che genitori e familiari lascino ai propri cari la libertà di essere protagonisti attivi della propria vita, stando loro accanto e facendo sentire il proprio sostegno resistendo però alla tentazione di proteggerli da qualsiasi frustrazione fisica e/o emotiva

Sono convinta che nessuno è sufficiente a se stesso, che non si può arrivare dappertutto facendo conto sempre e solo sulle proprie forze… anche quando non si hanno deficit fisici e/o sensoriali.

Chiedere aiuto non è un segno di debolezza, bensì di consapevolezza dei propri limiti, un modo per volersi bene… volersi bene e prendersi cura di sé è un diritto ed un dovere di qualunque essere umano!

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