Affrontare senza attaccare

Al centro una donna in posizione zen e ai due lati due persone che stanno discutendo animatamente.

Nell’articolo Il miracolo del dialogo ho parlato dell’importanza di saper ascoltare e di come, anche con le migliori intenzioni, spesso si danno delle risposte che costituiscono delle vere e proprie barriere alla comunicazione, in questo invece vedremo come è possibile confrontarsi in maniera efficace, in modo da risolvere i conflitti, promuovendo un cambiamento nel proprio interlocutore.

Concentrarsi su di sé.

Spesso quando ci troviamo in disaccordo con una persona o siamo infastiditi da una cosa che ha fatto, reagiamo con l’attacco e la stigmatizzazione del suo comportamento. In questo modo, però, quasi mai si ottiene un cambiamento del comportamento del nostro interlocutore (o anche delle semplici scuse autentiche), perché egli si sente attaccato e reagisce di conseguenza.

Quello che accade in questi casi è che si innesca un circolo vizioso, in cui ogni scambio comunicativo comporta un innalzamento della temperatura emotiva degli interlocutori… e ciò non è di nessun aiuto per la comprensione e, tanto meno, per la risoluzione del problema.

Diversamente, se si espone il problema partendo da se stessi, dalle conseguenze del comportamento dell’altro sulla nostra vita e dalle emozioni suscitate in noi, il risultato sarà, nella maggior parte dei casi, assai differente: è infatti molto più probabile che l’altro modifichi il proprio comportamento, ci chieda scusa e comprenda realmente gli effetti che ha avuto su di noi il suo agire.

Se si desidera essere compresi dagli altri, si deve parlare di se stessi. (Io) desidero, (io) penso, (io) sento, (io) so, e così via. I messaggi in prima persona sono straordinariamente più potenti di quelli in seconda persona: si pensi com’è diverso sentirsi dire “ti amo” piuttosto che “sei adorabile”.

Affinché un messaggio di confronto sia realmente efficace è necessario che il linguaggio impiegato rispetti quattro criteri:

  1. deve avere una grande probabilità di generare un cambiamento utile;
  2.  non deve sminuire l’autostima dell’interlocutore;
  3.  non deve ledere la relazione;
  4.  non deve specificare alcuna particolare soluzione.

Perché questi criteri siano rispettati l’unica possibilità, come scrivevo sopra, è quella di costruire messaggi che si concentrino su di noi e non sull’altro, evitando messaggi in seconda persona impositivi, accusatori e critici, come ad esempio “Sei maleducato!” “Piantala!” (la seconda persona è implicita). “Non te ne importa nulla di me.” “Non conseguirai mai nulla.” “Sei una menefreghista!”.

Messaggi come questi sono dannosi perché attaccano la persona, le sue motivazioni o il suo carattere, anziché ciò che ha detto o fatto: in pratica, esprimendosi in questo modo, si combatte la persona e non, come sarebbe utile, il suo comportamento per noi inaccettabile.

Le 3 parti dei messaggi in prima persona.

Iniziare ad esprimersi avvalendosi di proposizioni dichiarative in prima persona è un ottimo punto di partenza per condividere il proprio stato d’animo con gli altri e provocare un cambiamento in loro e nel loro comportamento, ma non sempre è sufficiente. Per affrontare i comportamenti inaccettabili è necessario affinare i propri messaggi, stando attenti che contengano le seguenti tre componenti:

  1.  una descrizione non accusatoria del comportamento;
  2.  Un effetto concreto e tangibile del comportamento;
  3.  I sentimenti generati dall’effetto tangibile di quel comportamento.

Quindi, per aumentare le probabilità che il nostro messaggio produca il risultato da noi sperato, è necessario chiarire al nostro interlocutore che cosa ha fatto o detto esattamente per provocarci un problema; in secondo luogo, è necessario descrivergli le conseguenze concrete che il suo comportamento ha avuto sulla nostra vita; infine, dobbiamo esprimergli i sentimenti suscitati da tutto ciò.

Nel rivelare i propri sentimenti, è accettabile anche riferire la propria rabbia, anche se è molto più efficace concentrarsi su ciò che l’ha provocata: la rabbia, infatti, è un’emozione di secondo livello, dietro alla quale c’è sempre un’altra emozione ed è su di essa che è utile convogliare l’attenzione… ma avremo modo di approfondire il tema della rabbia, della sua espressione e gestione in un altro articolo.

Descrivere il comportamento.

Ho ritenuto necessario dedicare un paragrafo specifico al passaggio della descrizione del comportamento perché, per quanto possa apparire un’operazione semplice, in realtà è quella in cui si sbaglia più di frequente.

L’errore che si fa spesso è quello di non limitarsi a descrivere il comportamento oggettivo (ad es. essere arrivato in ritardo ad un appuntamento), ma sconfinare in valutazioni ed interpretazioni di ogni genere (sei un irresponsabile, non ti importa nulla delle mie esigenze ecc.).

Inoltre, spesso si incorre nell’errore di utilizzare avverbi assoluti, come “sempre” o “mai”, e di pronunciare frasi o parole emozionalmente cariche, che tradiscono la volontà di impartire una lezione o punire l’interlocutore, mentre l’obiettivo del confronto deve essere solo quello di modificare il comportamento inaccettabile.

I messaggi in prima persona non sono magici.

Il linguaggio in prima persona è un linguaggio abilitante: quando comprendiamo i nostri pensieri e sentimenti, possiamo formulare senza rischi messaggi positivi e preventivi, anziché soltanto quelli di confronto.

Purtroppo, però, i messaggi in prima persona non sono la bacchetta magica che risolve tutti i problemi di relazione, gli esseri umani sono complicati e non c’è ricetta od istruzione che garantisca il buon esito di un confronto.

A parte l’aver inviato messaggi futili o non ben costruiti (ad esempio senza una delle tre componenti), ci sono varie motivazioni per cui i messaggi in prima persona possono non avere successo:

  • Il nostro interlocutore potrebbe non aver compreso quanto il suo comportamento abbia avuto ripercussioni su di noi o, addirittura, potrebbe non concordare sul fatto che abbiamo subito una qualsiasi forma di torto;
  • il comportamento del nostro interlocutore soddisfa un suo bisogno più impellente di quanto non sia avere premura nei nostri confronti e ciò gli impedisce di cambiare;
  •  il messaggio è incongruente, ossia non rispecchia i nostri reali sentimenti: accade questo quando si vuole essere forzatamente cortesi, utilizzando un linguaggio verbale accomodante mentre quello non verbale trasmette rabbia; oppure quando, al contrario, si alza l’intensità emotiva formulando messaggi pieni di acredine, pur sapendo di esagerare, nella speranza che ciò spaventi l’altro, inducendolo al cambiamento, o di impartirgli una lezione;
  • il messaggio è scadente, come ad esempio quelli in cui si dice all’altro cosa fare (“Quando lasci la porta aperta, sento freddo, quindi chiudila!”): suggerire una soluzione significa sottrarre all’interlocutore la possibilità di offrirci un cambiamento, che è l’unica cosa che nella maggioranza dei casi egli può fare per noi.

In aggiunta a tutto ciò non dobbiamo dimenticare il fatto che un confronto è efficace se tutte le persone coinvolte sono disponibili… il che non è scontato. Nel caso in cui il nostro interlocutore, pur avendogli rivolto un messaggio di confronto ben costruito e congruente con i nostri sentimenti, si alteri e la tua temperatura emozionale salga, sarà necessario compiere un difficile cambio di atteggiamento: passare dal volerlo affrontare all’aiutarlo con le modalità di cui abbiamo parlato nel precedente articolo.

La trappola degli elogi.

Si tende a pensare che elogiare una persona, quindi farne l’elenco dei meriti e delle virtù, sia un atteggiamento positivo, che fa piacere a chi ne è il destinatario… ma non è così.

Non a tutti piace ricevere complimenti in continuazione ed essere al centro dell’attenzione, anzi sono molto in imbarazzo quando ciò succede.

Gli elogi sono messaggi in seconda persona valutativi che possono costituire delle vere e proprie barriere alla comunicazione ed è quindi importante valutarne i rischi.

L’elogio è un giudizio (“Hai fatto bene, hai fatto un buon lavoro”, ecc.) e l’atto di giudicare prevede l’esistenza di una competenza (expertise) e della superiorità di un giudice. Elogiare pertanto implica una disuguaglianza tra la persona giudicante e la persona, o l’evento, giudicata.

Salvo casi particolari in cui il fine è quello di manipolare o modellare qualcuno, solitamente lo scopo dell’elogio è quello di dare un feedback positivo, condividere un piacere, dare sollievo, felicità e una serie di altri sentimenti connessi ai comportamenti positivi… tutte cose conseguibili, senza correre i rischi implicati dall’elogio, formulando semplicemente messaggi positivi in prima persona, quali: “Mi piace quando…”, “Apprezzo molto quando…”, “mi piace/mi è piaciuto il tuo lavoro”.

Ad una prima lettura probabilmente vi apparirà tutto molto complicato e difficilmente conciliabile con i ritmi della vita quotidiana, ma come ho scritto nell’articolo Il miracolo del dialogo, si tratta solo di entrare nell’ottica giusta, allenarsi un po’ e ad un tratto scoprirete che certe frasi vi vengono spontanee… e di ciò ne beneficerà la qualità delle vostre relazioni con le altre persone e, di conseguenza, la qualità della vostra vita!

Per approfondire:

Gordon T. (2014), Relazioni efficaci. Come costruirle. Come non pregiudicarle, edizioni La meridiana.

Vignetta dove due persone stanno facendo il tiro alla fune

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